Il primo esempio di edilizia economica e popolare è romano e risale al IV secolo avanti Cristo quando, a causa dell’aumento della popolazione residente (1.500.000 di abitanti nella massima espansione) e della forte richiesta di alloggi in città, i costruttori di allora, veri e propri “palazzinari” ante litteram, cominciarono a costruire le “insulae”, edifici alti fino a sei piani -in alcuni casi fino a dieci- dove abitava, a caro prezzo ed in condizioni igieniche precarie, la gran massa della popolazione.
Cicerone, riferendosi alla quantità di palazzi, alti più di venti metri, che disegnavano lo skyline dell’Urbe, definiva Roma come la “città sospesa”. Le insulae (da cui deriva il termine “isolato”) erano costruite spesso in spregio alle più elementari normative di sicurezza che, anche a quei tempi, regolavano l’edilizia. Gli edifici avevano muri maestri portanti al limite della regola che imponeva una larghezza minima delle mura di 45 centimetri ma che non fissava un’altezza massima, stabilita poi da Augusto in 60 piedi, quasi, appunto, venti metri. Dieci in meno dei “grattacieli” citati da Giovenale che descrive insulae di ben dieci piani. I primi piani erano in muratura, gli ultimi in legno, per tentare di diminuire il peso della struttura.
L’insula, che poteva ospitare fino a 200 persone, era una sorta di scala sociale al contrario: al piano terra abitavano infatti le persone più abbienti, mentre i cittadini più poveri abitavano i piani più alti, sfavoriti in caso di incendio. Tra i “palazzinari” che si distinsero all’epoca per spregiuticatezza costruttiva vi fu il potente e ricchissimo banchiere Lucio Licinio Crasso che con le insulae accumulò una grande fortuna, vantandosi di non aver mai speso nulla per costruirle. Secondo le cronache dell’epoca infatti comprava vecchi edifici pericolanti da proprietari in difficoltà per riimmetterli poi sul mercato a prezzi maggiorati.