La pandemia ha reso famoso un modello di città alternativo che rinuncia alle auto e avvicina le persone ai servizi. Ma il teorico del design va oltre: prossimità vuol dire empatia e cura reciproca, solo così le città possono cambiare davvero
C’è un’immagine bella e potente, nell’ultimo libro di Ezio Manzini, che fa riflettere meglio di tante parole su ciò che eravamo e che siamo diventati. È l’immagine, per ovvie ragioni sempre più rara nelle grandi città, dei bambini che giocano per strada. “I bambini un tempo giocavano nelle strade in autonomia, senza che nessuno li controllasse, quando in realtà esisteva una rete spontanea fatta di negozianti, pensionati o semplicemente di persone alla finestra che lo faceva”, racconta il celebre teorico del design e dell’innovazione in Abitare la prossimità (Egeaedizioni). “L’arrivo delle auto e il progresso hanno cancellato tutto questo, ma è anche vero che anche laddove non ci sono auto i bambini non giocano più da soli in strada, perché è venuto meno quel sistema di relazioni e di fiducia che lo permetteva. Prossimità e cura vuol dire riattivare quella fiducia, e non ci si arriva semplicemente chiudendo le strade alle auto”.